IL TRUST AUTODICHIARATO E LA REGOLA DEL SOSPETTO

La regola del sospetto è da sempre il filtro attraverso cui la giurisprudenza italiana approccia lo strumento trust. Ovvero, accertare che il disponente non abbia occultato il proprio patrimonio per assicurarsene l’impunità. Questa mentalità, indubbiamente condizionata e rafforzata dall’utilizzo improprio del trust e dall’abuso che ne è stato fatto soprattutto a partire dalla fine degli anni novanta, è ancora oggi il criterio di analisi principale del giudice italiano, soprattutto se si tratta di trust autodichiarato.

Le conquiste dei nostri tempi, se così si può dire, hanno certamente condotto ad una visione più realistica del trust di quanto non lo fosse in passato, ma la comprensione e l’elaborazione dello strumento è ancora funzionale a dichiarare se esso sia stato istituito in frode alla legge o in danno ai creditori oppure no.

Da un punto di vista pratico che succede?

Abbiamo un orientamento consolidato di Cassazione che da oltre due anni conferma e ribadisce che agli atti di dotazione del trust non è applicabile l’imposta sulle successioni e donazioni, mentre  l’imposta di registro, l’imposta catastale e ipotecaria, se e quando dovute (a seconda della tipologia di beni) vengono applicate in misura fissa, in quanto il trasferimento a favore del trustee è comunque temporaneo e strumentale alla realizzazione delle finalità del trust e solo l’attribuzione finale dei beni ai beneficiari può costituire il presupposto per l’applicazione delle imposte in misura proporzionale. Tale principio vale ancor di più per l’atto di dotazione del trust autodichiarato, in cui disponente e trustee coincidono, dato che in esso “un reale trasferimento è impossibile” (Cass. Sentenza n. 22754, depositata il 12 settembre 2019)

La posizione dell’Agenzia delle Entrate, tuttavia, non è cambiata. Ma neppure l’approccio ermeneutico della Corte di Cassazione pare cambiato. Siamo ancora in una fase di “metabolizzazione” dell’istituto.

La Suprema Corte è incline a riconoscere la validità e l’efficacia del trust autodichiarato in presenza delle seguenti condizioni:

  • l’atto istitutivo deve essere strutturato in modo tale da impedire al disponente-trustee di gestire a suo piacimento i beni in trust,
  • la concreta operatività del trust deve essere pienamente conforme alle previsioni negoziali,
  • non deve trattarsi di trust interposto,

ma quale professionista valuta con serenità la costruzione di un trust autodichiarato e lo propone al proprio cliente anche quando nel caso concreto risulta essere la migliore delle soluzioni possibili? Probabilmente nel solo caso in cui è di ausilio alle famiglie con figli portatori di disabilità gravi secondo la disciplina della L. n. 112/2016 c.d. sul “Dopo di noi”, dove le condizioni economiche dei disponenti non consentono di rivolgersi ad  un trustee professionale e dove spesso i disponenti-genitori  sono gli unici soggetti in grado di sostenere pienamente il ruolo di fiduciario, almeno in prima battuta, finalizzato alla tutela e al benessere del beneficiario “debole”.

Il trust autodichiarato è ancora un tabù perché il trust stesso in Italia viene ancora valutato secondo la regola del sospetto e spesso si scivola sulle bucce di banana che offrono un appiglio sicuro al giurista che non si è spogliato delle vesti di positivista per indossare la giacca del comparativista.

Per molti operatori del diritto il trust autodicharato mantiene ancora zone d’ombra non risolte scaturenti dal mancato amalgama dell’unico testo normativo che lo ha introdotto nel nostro ordinamento e ne ha reso possibile il riconoscimento (Convenzione dell’Aja del 1°Luglio 1985 ratificata dall’Italia con la Legge 16 ottobre 1989 n. 364) con tutte le problematiche determinate da fatto che Il trust interno è e rimane un trust di civil law. E’ uno strumento “importato” e chiamato ad operare in un sistema di tradizione romanistica dove la legislazione nazionale non ha fatto nulla per adattare il modello astratto e generico della Convenzione alle esigenze culturali e strutturali che lo ospitano e neppure è intervenuta successivamente per armonizzarlo al modello internazionale.

Occorre necessariamente un approccio sistematico e coordinato all’orientamento internazionale del diritto dei trust.

La legittimità del trust autodichiarato, tipologia di cui non si fa cenno nel testo della Convenzione, non si gioca solo sull’interpretazione degli articoli 2 e 4, cioè nella differenza tra il concetto di “controllo” del trustee sui beni rispetto alle parole “trasferiti  al trustee” riferendosi ai beni, che già in sede di lavori preparatori aveva destato perplessità a causa del mancato allineamento ermeneutico prodotto dalla differenza tra i due testi. L’opinione positiva della dottrina più autorevole e anche più convincente (S. Bartoli, M. Lupoi) ha da sempre sostenuto la tesi secondo cui la menzione del “disponente” nel primo paragrafo dell’art. 2 fu introdotta per agevolare i delegati degli Stati di civil law, i quali necessitavano di una formulazione talmente chiara da risultare scolastica della norma descrittiva del trust, che, volutamente, non viene definito. Allo stesso modo e per lo stesso motivo, per i delegati di common law risultava pleonastico se non inutile chiarire che la Convenzione fosse applicabile anche ai trust autodichiarati. Tale sforzo argomentativo di più ampio respiro è rimasto maggiormente convincente anche a discapito di chi (L. Fumagalli) tendeva a legittimare il trust autodichiarato attraverso il secondo paragrafo dell’art. 2 nella parte in cui consente al disponente di conservare per sè “diritti e facoltà” dopo l’istituzione del trust, traendone la conclusione che ciò comprendesse anche l’autodesignazione del disponente a trustee.

A ben vedere il trust autodichiarato è legittimo perché appartiene già alla fattispecie delineata dall’art. 2 se solo la si leggesse con uno sguardo meno pigro e più ragionato del “… giurista burocratico che si è riparato per anni dietro la mancanza di una pronuncia della Corte di Cassazione come dietro a scudo talmente alto e largo da impedire persino il guardarsi intorno” (M. Lupoi, “Istituzioni del diritto dei trust nei paesi d’origine e in Italia”). Il rapporto giuridico di cui parla la Convenzione e cioè il “trust” è riconoscibile sia quando i beni sono pervenuti al trustee per trasferimento fattone dal disponente, sia se i beni erano di proprietà del trustee che ancora non era divenuto tale, sia se su di essi il trustee esercita pieno controllo in forza di qualsiasi negozio giuridico.

Del resto, il nostro ordinamento conosce e utilizza il fondo patrimoniale da decenni che, con i dovuti limiti del caso, altro non è se non un patrimonio separato dei coniugi sul quale essi hanno impresso un vincolo funzionale per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia che seleziona automaticamente l’alveo dei creditori e su cui i coniugi-disponenti mantengono la proprietà e l’amministrazione.

L’equivoco ingenerato dall’art. 4, cui ancora oggi molti giuristi fanno riferimento, è pericoloso perché esso in verità abbraccia un contesto di pertinenza diverso dall’essenza/esistenza del trust e crea all’interprete un inganno maggiore. L’art. 4 si riferisce, piuttosto, all’atto dispositivo per escluderlo dall’ambito applicativo della Convenzione e fare in modo che esso soggiaccia alle regole di conflitto del foro e quindi richiama l’applicazione delle disposizioni interne del Paese  ratificante.

Infatti, mancando nel trust autodichiarato un negozio dispositivo di trasferimento, l’art. 4 non si applicherebbe ma resterebbe comunque ferma l’applicabilità delle norme della Convenzione in base all’art. 2 paragrafo primo.

La corrente di pensiero divenuta dominante negli anni poggia sulle seguenti considerazioni. La prima, secondo cui l’art. 2, paragrafo primo della Convenzione, riferendosi ad un “disponente” e ad un “trustee”, non esige e non precisa affatto che debba trattarsi di soggetti distinti, ma si limita ad affermare che, per aversi un trust (riconoscibile ai sensi della Convenzione) occorre una fattispecie in cui qualcuno svolge il ruolo di disponente e qualcuno (non necessariamente qualcun altro) svolge il ruolo di trustee.

La seconda considerazione, attinente l’art. 2, paragrafo primo, riguarda la parola  “controllo” sui beni da parte del trustee (invece che di beni “trasferiti a o trattenuti da” un trustee, come accadeva in una precedente versione di tale norma), introducendo una nozione convenzionale di trust più ampia di quella propria del modello tradizionale anglosassone, al punto che la tesi prevalente include nella stessa anche le cosiddette trust-like institutions[1], e a maggior ragione anche  l’autodichiarato.

In “Knight vs Knight del 1840” è scolpita una regola paradigmatica per la corretta costituzione di un trust, la cosiddetta regola delle “tre certezze”, secondo la quale un trust viene ad esistenza solo se vi è

  1. Certainty of Intention to Create a Trust
  2. Certainty of Subject -Matter
  3. Certainty of Beneficiaries and Administrative Workability

essa include certamente anche il trust autodichiarato.

Infatti, sebbene il disponente divenga trustee ed apparentemente egli mantenga il controllo dei beni in trust egli non è più libero di esercitare tale potere a proprio piacimento, essendo divenuto obbligato ad amministrare e disporre dei beni del fondo secondo le disposizioni dell’atto istitutivo e della legge regolatrice, come un qualsiasi altro trustee.

Il trustee è un soggetto dotato di poteri fiduciari e obbligato all’adempimento di obbligazioni fiduciarie, dove i beneficiari del potere non sono coloro che conferiscono il potere, ma terzi, cosicché solo l’interesse di questi ultimi deve essere preso in considerazione dal fiduciario anche in contrasto con l’interesse di chi gli ha conferito il mandato.

I due aspetti che caratterizzano l’obbligazione fiduciaria, ovvero: “loyalty” responsabilità e “accountability” rendicontabilità, rappresentano l’equilibrio tra poteri e obblighi del trustee, di ogni trustee, e misurano la portata del suo incarico, i confini e i limiti del mandato ricevuto.

Perché, dunque, se in capo al medesimo soggetto disponente-trustee si sdoppiano funzioni, obblighi e responsabilità dove le finalità perseguite sono lecite e meritevoli e la segregazione patrimoniale è funzionale all’obbiettivo perseguito, nel nostro Paese scatta ancora la regola del sospetto?

Concludo rubando una eloquente frase di Michele Graziadei: ”Solo qualche sprovveduto può pensare che con il trust si possa fare di tutto e di più”.

 

Avv. Barbara Battistoni