Ne siamo tutti consapevoli: in passato, la carenza di capitale di rischio delle PMI italiane (che fanno impresa solo con il 17% di capitale proprio, contro il 40-45% delle PMI europee e il 70% delle corrispondeti imprese americane) era più che compensata da una abbondante disponibilità di credito bancario a prezzi competitivi, generato dall’elevato tasso di risparmio degli italiani.
Quel tempo è finito perché le nostre banche tra le varie Basilea e i requisiti patrimoniali MREL (quelli legati al bail-in) non sono più in gradi di assicurare una simile leva nei processi di investimento delle imprese. Anche alla luce delle evoluzioni generate dalle trasformazioni in corso, sia normative (MIFID2 in primis) che di mercato (fusioni e altre operazioni straordinarie, in particolare su banche popolari e crediti cooperativi), è allora chiaro che il ponte da attraversare in questo momento è quello del passaggio tra leva bancaria e leva finanziaria.
La nuova normativa evolutiva sui PIR, gli ELTIF, la loro duration più lunga e l’ipotesi di concedergli vantaggi fiscali, i provvedimenti di finanza agevolata sul sistema PMI sembrano procedere in questo senso. Senza dimenticare i fondi di private equity che andrebbero implementati ulteriormente nella consapevolezza che il nostro Paese rimane particolarmente attrattivo in termini di IRR e di qualità di rendimento degli investimenti, nazionali ed esteri, di lungo periodo.
E dunque, gli investimenti dei privati in finanza dedicata allo sviluppo industriale italiano potrebbe essere importante per il rilancio del sistema Italia, per l’allungamento degli orizzonti temporali su cui sono collocati mediamente i clienti e per l’elevato grado di decorrelazione rispetto alle tradizionali asset class. Crediamo che questo sia il nuovo orizzonte del private banking nel nostro Paese. Ecco dove il nostro business dovrebbe andare. Ma tutto questo non sarà possibile se non si genererà un vero e proprio passaggio generazionale nelle competenze dei singoli banker.
L’approccio in termini di weallth management, soprattutto se concentrato sui processi di ottimizzazione del “quadrilemma” patrimonio/persona/famiglia/azienda richiede competenze molto più ampie che devono vedere il banker approcciare non tanto gli asset finanziari del cliente (competenza ormai da dare per scontata) ma anche e soprattutto tutti quegli asset (immobili, azienda, partecipazioni, logiche generazionali, arte, eccetera) da cui riuscire ad estrarre sia valore per il cliente stesso, che quella parte di conto economico in grado di compensare i mancati ricavi generati dalla riqualificazione del pricing finanziario.
Come è stato più volte ribadito su queste pagine da autorevoli commentatori, i private banker “medi” oggi hanno molteplici competenze ma tutte relativamente standard: gestione del cliente (raramente acquisizione) generati dalle filiali o derivanti dai portafogli di altri colleghi, consulenza quasi esclusivamente finanziaria ai clienti, spesso non proattiva ma quasi sempre on-demand su richiesta dei clienti stessi, altre attività di supporto.
E’ a causa di tale differenziale tra quanto richiesto dalle trasformazioni del mercato e il livello medio esistente che lo scenario su cui muoversi deve essere quello di rivoluzionare la proposizione di valore in termini di competenze. In particolare in un mercato come quello del private banking che vedrà filiere economiche meno appetibili e ancora più concorrenti entrare per vincere sul mercato.
Senza dimenticare che, nel giro di pochissimi anni, l’avvento dell’intelligenza artificiale e dell’era della sostituzione tecnologica potrà avere impatti significativi sul sistema delle competenze, eliminando quelle routinarie e amministrative e facendo evolvere in alto quelle di problem solving complesso e tutta la parte relativa ai soft skills.